
La storia all’ombra delle montagne: Longobucco e San Giovanni in Fiore.
Dopo l’incanto nelle foreste fiabesche composte da faggi, pini e aceri secolari, lo spirito si sente sufficientemente rinvigorito da tanto benessere ed è pertanto pronto al ritorno nella combattiva vita quotidiana. Ma la Sila non è solo un immenso parco naturale (per maggiori dettagli leggete qui!): per quanto negli anni passati sia stato arduo stabilire delle comunità a causa della fitta vegetazione, l’uomo riuscì nel Medioevo a fondare dei borghi ad altitudini relativamente basse che oggi rappresentano una pagina importante della storia silana.
Percorrendo la strada statale 177 e costeggiando il grande Lago Cecita, si prosegue in direzione di Longobucco, comune scosceso non molto distante dal fiume Trionto. L’ipotesi più plausibile sull’origine del nome curioso è probabilmente la traduzione dal latino di longa bucca, “lunga cavità”, che ben si lega alla posizione geografica del paese collocato lungo la gola. In più, il vicino torrente Macrocioli, possiede la stessa traduzione considerato il nome derivante dal greco/bizantino makrokoilos.


La zona fu occupata da varie civiltà, dai Greci ai Romani per poi passare ai Normanni e agli Angioini tutti spronati dallo stesso motivo, ovvero lo sfruttamento delle numerose miniere d’oro e d’argento.
Quando Longobucco fece parte del feudo di Rossano, passando per le mani di potenti famiglie come Sforza e D’Aragona, i giacimenti furono largamente impiegati per la coniazione delle monete. Tale attività unita all’artigianato, alle fertili terre a valle e ai ricchi boschi in montagna, consentì al borgo di vivere un periodo particolarmente fiorente.
Gli appassionati di trekking possono esplorare la zona mineraria percorrendo la Via delle Miniere, sentiero naturalistico che si snoda tra boschi e antiche gallerie d’argento.


La storia di Longobucco ha però anche un lato oscuro risalente al periodo pre e post Unità d’Italia: il brigantaggio. Molte furono le scorrerie dei capibanda Antonio Santoro “Re Curemme”, guida guerriera di un piccolo esercito contro i francesi, e Domenico Strafaci “Palma”, indiscusso “difensore” della Sila a tutela dei poveri contro i ricchi tiranni.
Tuttavia nonostante gli avvenimenti tumultuosi dell’800 e della resistenza antifascista, sono ancora intatti i testimoni del periodo storico più prospero delineato da palazzi gentilizi e chiese come la Chiesa Matrice dedicata a Santa Maria Assunta. Inoltre è ancora vivo l’artigianato tessile ben rappresentato in campo internazionale da Celestino, azienda storica che ospita anche il museo dedicato all’antica arte della tessitura mostrando abiti di pregio, attrezzature e metodi di lavorazione del passato ancora in uso.


Di origini molto differenti invece San Giovanni in Fiore, cittadina più a sud di circa 40 chilometri da Longobucco. Il territorio comunale molto ampio presenta cambi di dislivello considerevoli che partono dalla quota minima di 350 metri alla massima di 1880 metri del Montenero, la seconda vetta più alta della Sila dopo Monte Botte Donato. Tale ripidità è riscontrabile anche all’interno del nucleo abitato in continua discesa (o salita…) dai quartieri di recente costruzione fino al centro storico affacciato sulla valle.
Non bisogna lasciarsi impressionare dalla vivacità e dal rumore dei sobborghi moderni appena usciti dalla statale 107 Silana Crotonese, l’atmosfera cambia radicalmente una volta raggiunto il cuore di San Giovanni in Fiore: l’Abbazia Florense.


Storia vuole che l’abate Gioacchino da Fiore, dopo un lungo periodo di affinamento spirituale in numerose abbazie, volle trovarsi a tutti costi un luogo ideale per la meditazione e la realizzazione di un monastero.
Inizialmente si stabilì in località Iure Vetere nel 1189, zona tranquilla ma non esente da difficoltà: gli inverni erano estremi e i rapporti con il vicino Monastero dei Tre Fanciulli erano talvolta tesi. In più, nel 1214, un incendio accidentale mandò letteralmente in fumo il complesso di cui oggi sono ancora visibili i resti.
Nonostante l’evento drammatico, i monaci florensi (così chiamati i sostenitori dell’abate ormai passato a miglior vita nel 1202) non abbandonarono l’idea di fondare una propria abbazia. Così grazie all’aiuto di alcuni benefattori, inclusa l’imperatrice Costanza D’Aragona, il secondo monastero venne realizzato su un costone roccioso di qualche centinaio di metri più basso rispetto a Iure Vetere ove abbondavano campi d’agricoltura con tanto di canali irrigatori costruiti precedentemente dai Longobardi; ulteriore lato positivo della nuova sistemazione fu anche il clima decisamente più mite. Nel 1230 si conclusero i lavori mostrando al mondo un complesso davvero imponente che venne ristrutturato col passare degli anni secondo gli stili d’arte relativi alle varie epoche.
Oggi l’estetica, sia esterna che interna, è tipicamente romanica anche se, nel ‘600, la navata centrale fu arricchita da barocchismi pregiati che andarono purtroppo perduti nel corso di un restauro avvenuto nel 1989.


La presenza dell’abbazia fu fondamentale per la nascita di un centro abitato che, però, sottostando ai dettami ecclesiastici, non ebbe particolari sviluppi fino al 1530, anno in cui l’allora abate Salvatore Rota prese in commenda il villaggio rendendolo “civico” ed aperto a cambiamenti.
Con il re Ferdinando IV di Borbone, San Giovanni in Fiore divenne pertinenza del patrimonio regio abbandonando l’etichetta ecclesiale imposta dal monastero per sempre. Le famiglie nobili interessate alle ricchezze della Sila aumentarono rafforzando, nel bene e nel male, il tessuto sociale ed economico del borgo fino alla fine dell’800.


Purtroppo, le conseguenze maligne del benessere sociale, consistettero in maggiori prepotenze delle ricche famiglie terriere sui contadini che, stanchi delle condizioni insopportabili, si ribellarono dando inizio alla rivolta agraria. I meno combattivi invece optarono per l’emigrazione in America, fenomeno che interessò tutta la prima metà del ‘900 anche a causa delle repressioni fasciste (tristemente conosciuta è la strage del 2 Agosto 1925).
Nonostante le difficoltà, in tempi più recenti, non tardò ad arrivare lo sviluppo fondato sul turismo grazie al centro storico ricco di fascino; sfortunatamente non mancò anche un inquietante abusivismo edilizio interessato ad ampliare i quartieri esterni al borgo antico.

Il tempo scorre velocemente esplorando e studiando ambienti saturi di storia, dunque ai primi rumori al ivello della pancia non dovrà mancare la sosta rinvigorente a base di golosità tipiche. Per questo in entrambi i borghi descritti sono presenti in gran numero trattorie e ristoranti anche se rivolti per lo più al turismo di massa.
Invece sulla statale 107, a brevissima distanza da San Giovanni in Fiore, esiste una realtà che brilla di luce propria in un contesto così profondamente rurale: all’interno del lussuoso Biafora Resort si trova il ristorante Hyle, il cui nome coniato dagli antichi Greci silani significa “materia”. E già il nome lascia supporre a grandi cose…
I Biafora sono una storica famiglia di albergatori e Antonio, chef e mente del ristorante, è riuscito ad alzare l’asticella dell’ospitalità grazie alla nuovissima struttura (inaugurata a Gennaio) ove mostra talento, creatività e legame con il territorio.



Tutto è curato nei minimi dettagli: dall’accoglienza che dà accesso alla sala aprendo le sue porte in stile maison d’altri tempi, agli arredi minimali ma eleganti con tanti richiami artistici alla Sila, per passare al menù variegato e sofisticato dalla forte impronta territoriale. Grande attenzione posta anche sulla cantina contenente circa 400 etichette per metà calabresi.
Il personale, nonostante le mascherine, è sorridente, affabile e particolarmente attento alle esigenze dei visitatori evitando di procurare la spiacevole sensazione di stare perennemente sotto l’occhio guardingo. La brigata dello chef è uno spettacolo della sincronizzazione all’opera nella cucina visibile sia dal bancone (adibito per l’aperitivo) che dalla sala comprendente soli quattro tavoli per vivere l’esperienza sensoriale con maggior spensieratezza.



















Nonostante il numero di portate, le porzioni ben dosate e le materie prime eccellenti lasciano solo un piacevole senso di sazietà privo di alcuna pesantezza. Una realtà simile non è solo vanto del territorio ma anche opportunità per le piccole ditte agroalimentari silane di uscire allo scoperto promuovendosi attraverso i percorsi gourmet di menti sopraffine come quella di Antonio Biafora.
Segno che il coraggio e l’ingegno con un piccolo supporto possono portare molti diamanti grezzi a brillare più del solito e la Sila, grazie alla storia millenaria e alla natura immensa, ne ha molti da elevare, custodire e mostrare orgogliosamente.